Moda e sostenibilità possono andare d’accordo:una paladina dell’ambiente all’Onu – Il Sole 24 ORE

Moda e sostenibilità possono andare d’accordo:una paladina dell’ambiente all’Onu – Il Sole 24 ORE

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Rachel Arthur li definisce “architetti del desiderio”. Sono i professionisti della comunicazione, esperti di marketing, brand manager, influencer, image-maker, storyteller, quelli che per mestiere raccontano la moda, i suoi cambiamenti, che «svolgono un ruolo fondamentale in quello che vogliamo e che consumiamo. Il che comporta una grande responsabilità. Hanno il potere di plasmare aspirazioni e voglie. E se usassero questo talento per favorire un futuro più sostenibile?».

Il backstage della sfilata di Lovechild 1979 alla Copenaghen Fashion Week PE-24. (ph Tonya Matyu)

Non dite a Rachel Arthur che questo forse succede già, vi spiegherà con grande precisione perché non è così. Lei stessa viene da quel mondo; scrive di moda e sostenibilità per testate come NY Times e The Guardian, e non si è improvvisata esperta; alle spalle ha una laurea in Sustainability Management a Cambridge, riconoscimenti ufficiali, due anni trascorsi a dirigere la piattaforma di dati ambientali per Google in collaborazione con il Wwf; dodici anni fa ha fondato FashMash, community di operatori leader del settore moda, attivi quanto lei, che ha un’energia contagiosa anche alla fine di una giornata piena. Questione di età? «Sono meno giovane di quanto pensa», sorride su Zoom da Londra. Di recente ha messo le sue competenze e scrittura al servizio dell’Onu, più precisamente dell’Unep, il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite. E lo ha fatto con la concretezza di chi sa quanto sia urgente non limitarsi ai discorsi. Sono in tanti a pensare che già nel corso del 2024 potremmo superare la fatidica soglia dell’1,5 gradi Celsius di riscaldamento globale: un cambiamento non è più solo auspicabile, ma indispensabile. Con un team di consulenti, in gran parte donne, Arthur ha redatto per l’Unep il “The Sustainable Fashion Communication Playbook”, un vero e proprio vademecum teorico e pratico, di analisi, linee guida, esempi, che indica tre priorità su cui lavorare: «Cambiare i modelli di consumo, migliorare le pratiche, investire sulle infrastrutture».

La scuola di artigianato di SukkhaCitta, impresa sociale indonesiana che si affida a collaboratori di comunità artigianali locali. Si tratta del primo brand di moda asiatico ad avere i target di neutralità carbonica verificati da SBTI. (ph Sukkhacitta)

Di solito quando si dibatte di moda e ambiente si chiamano in causa l’industria, i metodi e i materiali di produzione, oppure i consumatori, le loro abitudini. Qui entra in gioco un fattore inedito: quegli “architetti del desiderio” di cui sopra, perché è soprattutto a loro che ci si rivolge. «Non potremo veramente incidere se non cambiamo sistema, se ad esempio non allarghiamo lo spazio dell’economia circolare. E non si cambia sistema, se non si ripensano i modelli di iperconsumo nei mercati principali», spiega Arthur. «Ma perché questo avvenga, è necessario cambiare la narrazione».

Ibu Lilik, maestra artigiana di SukkhaCitta. (ph Sukkhacitta)

La parola che più ricorre nella nostra chiacchierata è challenge, sfida. «La cultura e la comunicazione intorno alla moda seguono tradizionalmente il modello dominante, quello di un consumo lineare, di un ciclo costante e veloce di novità e obsolescenza; siamo spinti a desiderare il nuovo, dare valore al possesso, trovare gratificazione nell’acquisto. La parola chiave qui è: volume. Quantità. Produciamo troppo, consumiamo troppo. Secondo le stime ufficiali, tra il Duemila e il 2015 la produzione globale di abbigliamento è raddoppiata, su spinta del fast fashion; e il numero di volte che usiamo un capo prima di buttarlo via è invece sceso del 36 per cento. Con questi numeri, pensare di abbassare le emissioni è impossibile. E l’industria moda è considerata responsabile di una cifra che sta tra il 2 e l’8 per cento delle emissioni globali». Ma non è un paradosso, chiedere a un’industria di vendere meno? «La sfida è proprio in questo. Dimostrare che si può ottenere valore anche da modelli diversi, per esempio di economia circolare». Ci stanno provando, tra i diversi casi citati nel Playbook, i magazzini Selfridges di Londra con Project Earth, un progetto lanciato nel 2020 per cambiare la cultura dello shopping e reindirizzarla verso materiali più sostenibili, un business di economia circolare di prodotti chiamato Reselfridges, un servizio di vendita e noleggio di abiti pre-amati per spose e sposi, un altro chiamato Worn Again di vendita stagionale di capi di seconda mano. L’obiettivo è di portare per il 2030 alla soglia di almeno il 45 per cento le transazioni provenienti da economia circolare, e immagazzinare solo prodotti che soddisfino rigorosi standard ambientali ed etici. Il rigore è essenziale. C’è un elefante nella stanza, avverte Arthur, e si chiama greenwashing; tanta iniziativa, anche quando animata dai buoni eco-sentimenti, rimane imprecisa, approssimativa: «Secondo una ricerca fatta nel 2021 dalla Changing Markets Foundation, il 60 per cento delle rivendicazioni in fatto di sostenibilità da parte di fashion brand europei è “non comprovato” e “fuorviante”. Abbiamo la responsabilità di lavorare su dati scientifici certi, fonti accreditate, di promuovere iniziative verificate, pena la crescita di scetticismo del consumatore verso l’etichetta del sostenibile». Viene in mente Stella McCartney che in un’intervista recente al Telegraph in occasione della sua partecipazione alla Cop28 (la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) di Dubai raccontava di suo figlio Beckett che le aveva detto “mamma che ci vai a fare là? È solo greenwashing, non è lì che avviene il cambiamento”.

La scritta “Let’s change the way we shop sign” sulla facciata dei magazzini Selfridges, a Londra, parte dell’iniziativa Project Earth, per incentivare uno shopping più sostenibile. (ph Matt Writtle)

Inossidabile, «devo essere ottimista, non posso permettermi di non esserlo», Arthur richiama in causa chi fa storytelling, sapendo bene che sfioriamo il paradosso: parliamo di cambiare le cose dall’interno di spazi che esistono per spingerci a comprare. Una contraddizione? Non necessariamente. «Ci vuole una combinazione di creatività e pensiero critico da parte di chi comunica, e l’obiettivo finale è quello di separare il valore dalla crescita dei volumi. Mettere valore su altre cose, come la cura, il benessere, la comunità, piuttosto che il possedere ancora e ancora. Cerchiamo di allontanare questa narrazione cupa che a volte la sostenibilità evoca, concatenata al senso di colpa, di rinuncia, sacrificio, come se fossimo in una perenne economia di crisi».

March 19, 2024 at 02:13PM

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